Narciso Arte

“L’arte sta tornando al Narciso originario, cioè alle sue stesse origini, che, appunto, come attesta il mito di Narciso, sono il rispecchiamento del sé nell’altro da sé. L’opera d’arte, infatti, è sempre uno stagno di Narciso, in cui l’io dell’artista si rispecchia e riscopre la centralità esistenziale del proprio essere: Sua Maestà l’io nell’autorispecchiamento artistico, che non va inteso come esclusivamente visivo, bensì sostanzialmente psicologico, manifesta e realizza appieno il segreto profondo dell’esistenza, cioè l’identità tra io e mondo.

Per ogni uomo l’io è il mondo, il suo unico, vero e possibile mondo cosicché la propria immagine (e non soltanto psicologica, come stanno a testimoniare gli innumerevoli autoritratti che popolano la storia dell’arte) è il centro del mondo, e antropologicamente umbilicus dell’umanità”. Così scrivevo nell’incipit del mio testo per la mostra Narcissus, inauguratasi a Roma il 29 gennaio 1982 nelle sale dell’Istituto Italo-Latino Americano di Roma. Dopo aver indicato gli altri “investimenti sostitutivi del Narciso primario”, da cui è “determinato il Narciso secondario, proprio all’arte di tanti e tanti secoli, e tuttora ancora in atto”, precisavo che ormai si andava “facendo emergente un ritorno al Narciso originario, un ritorno che senza dubbio rimarrà la caratteristica connotativa dell’arte di questo ultimo scorcio di secolo”.

Quindi in questo saggio, utile a spianare la comprensione delle opere del gruppo di artisti che avevo raccolto in prima istanza, e cioè Giuseppe Biagi, che uscì presto, i gemelli Antonio e Tano Brancato (vero e proprio Narciso biologico), Michele Valenza (in arte Cossyro), Sergio Floriani, Luca Patella, Giuseppe Rogolino, prima di analizzare la loro produzione, esplicitavo – senza trascurare i precedenti narcisiani di Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini e Carlo Alfano – i diversi aspetti della poetica a cui mi rifacevo, insistendo su taluni, utili per il proseguimento futuro dell’indagine.

E alcuni aspetti retrospettivamente tornano utili, per cui li ripropongo estrapolandoli dal contesto. “La metafora dello specchio diviene un altro da sé, in cui viene concentrata l’immaginazione dell’io che, nel riflettere il sé/es nell’altro da sé, vi si riflette, facendo contemporanemanete riflettere l’altro da sé in se stesso. L’eau froide (Mallarmé) dello specchio diviene specchio dello specchio, oggettivamente il Narciso di Narciso, topos canonico di riflessi(one), circolarità assoluta della creatività, attuata attraverso la visualità visualizzata col farla ruotare intorno al proprio asse, al proprio centro, senza spostamenti verso il fuori o con l’introiezione di esso”.

“L’opera, in quanto particolare, un particolare della totalità dell’io, si fa momento parvente dell’autosimbolismo puro, spodestando il tutto, di cui prende il posto, senza tuttavia mai poterlo sostituire. Allora da replica del sé nell’altro da sé si fa semplicemente replica, obbligata perciò a sottostare alla legge, propria dell’inconscio, della coazione a ripetere, che sovente s’identifica nella coazione a ripetersi, perché, come insegna il mito, a Narciso è interdetto il possesso del proprio simulacro ed ogni tentativo di abbracciarsi è destinato al fallimento”.

Infine: “Vedere è un transfert, amare è un transfert. L’arte stessa è un transfert del pensare, vedere e amare il proprio io. Non esistono rapporti, non è possibile alcuna comunicazione al di fuori del transfert. Il fuori è una serie di situazioni transferali del dentro.

La vera dialettica dell’esistere poggia su fondamenta transferali (…) Volendo parafrasare, in piena libertà, un altro concetto, questa volta di Lacan, rintracciabile nel famoso Seminario su ‘La lettera rubata’, ogni opera narcisiana è una verità che abita la finzione e allo stesso tempo una funzione che prende il posto della verità, in quanto l’io diviene significante, visibilmente significante solo nel suo doppio, che è immagine dell’immagine che l’io ha di sé: infatti, sempre e comunque on voit son Ange, jamais l’Ange d’un altre (Rimbaud) (…)

Ma l’estroversione è soltanto apparente, una sorta di gioco a rimpiattino del Narciso che va a nascondersi (mimetizzarsi) nel Narciso di un altro, per ribadire che in definitiva la contemplazione narcisiana nel suo aspetto più profondo supera l’identificazione dell’io nell’altro da sé e mira ad un traguardo che va ben oltre all’identikit dell’io, ossia quello dell’identità come essenza ontologicamente autonoma, per cui lo specchio, più che il topos dell’autoriconoscimento, è virtualmente esso stesso un’identità”.

Nelle successive sortite espositive (Mestre, Bari, Basilea, 1982; Bagheria, Como, Erice, Borgomanero, Anagni, 1983; Macerata, Fabriano, 1984) aggiunsi altri artisti: nel 1982 Rosario Genovese, nel 1983 Franco Giuli, nel 1984 Antonella Cappuccio, Fernando Rea ed alcuni ospiti, quali William Xerra, Giuseppe Di Napoli, Shu Takahashi e Luciano Ventrone.

Degli artisti che avevano esposto all’Istituto Italo-Latino Americano lo specchio era usato da Patella, il quale spesso scriveva direttamente su esso e con esso otteneva la doublure ribaltata dell’immagine, ma anche di scritte (Ut ima ames/Ma ami tu?, 1974-78), da Nino Brancato, il quale lo utilizzava per rispecchiare, come in una stagno, i suoi disegni elaboratissimi e fortemente allegorici (La fionda si fa motivo d’arpa se l’incanto precede lo stupore – specchio permanente del due che ritorna ad essere uno-D-io, 1981), da Floriani, il quale, dopo i rispecchiamenti dei leucofili dittici con vedute della serie Lago d’Orta del 1981, ha cominciato ad inserire specchi in Iside e Speculum II (1983), per moltiplicarli circolarmente (Colonna esagona/colorare in circolo (verde, giallo, arancio, 1984-85), da Cossyro, che tuttavia nell’installazione Lo stagno di Narciso (1982-83) ne frantumò uno circolare, ponendolo sul pavimento, per ottenere il rispecchiamento dell’ovate tela che sulla parte si frantumava in basso, a simbolizzare gli abbracci di Narciso nell’acqua, frantumazione che poi si trasferì nelle installazioni con gocce e divenne iterativa nella serie delle opere a organetto. Rogolino utilizzava, invece, i cristalli trasparenti per ottenere rispecchiamenti (L’occhio dello specchio dell’anima), anche mescolati a giochi di riflessi di trasparenze (Museo d’arte occidentale di Tokyo 1958… resti), ambedue opere del 1984, in cui invertiva il rapporto cristallo-terracotta: nella prima l’oblò del riflettente cristallo era al centro della circolare terracotta, nella seconda la terracotta era all’interno della piramide di cristallo, come poi in Miraggio. E se Xerra inseriva uno specchio su una lapide cimiteriale al posto della foto del defunto, in modo che il fruitore in esso si riflettesse, Di Napoli utilizzava specchi spezzati per costruire le sue opere, tipo Autoritratto di Narciso (1982) e Autoritratto (1983). La doublure senza specchio era praticata da Cossyro, Floriani Rogolino, Patella, il quale la ottenne in vasi con profili umani, ed inoltre da Tano Brancato, che nel bassorilievo in gesso Bosco sacro (1979) duplicò le sue scene relative al fanciullo divino e al cavallo solare. Dal suo canto Genovese, sulla base di scatti fotografici, utilizzava la doublure di angoli urbani della sua Catania, ovviamente con eniantomorfismi d’immagine e di scritte delle targhe stradali, in “dittici” visivi, nei quali inizialmente accorpava positivo e negativo, creando un ribaltamento di senso, in seguito slittato sul piano della differenziazione dell’esecuzione pittorica.

Alla stessa soluzione era giunto nei suoi dittici oggettuali anche Fernando Rea, allorché aveva affidato alla sola pittura il suo iconismo simbolico incentrato sul Rebis (= res bis, cosa 2 volte) di alcuni archetipi (il Cane, l’Albero, il Cavallo, la Casa), e dico oggettuali, in quanto egli in schiacciati bassorilievi contrapponeva, anche cromaticamente, la stessa immagine enantiomorfica, p.es. il Cane (Rebus in rebis, Corps bleu, corps jaune). Né l’uno né l’altro giungevano alla commistione dell’eniantomorfosi delle immagini, come invece faceva nelle sue rivisitazione delle opere di museo Antonella Cappuccio, ottenendo effetti di deformazione mostruosa, ma davvero inaspettati, quanto suggestivi, il cui apice fu il trittico La bella giardiniera (1984), ispirato da Raffaello. Ben diversa era la deformazione che Luciano Ventrone otteneva nel ciclo di quella sorta di autoritratti, in cui su lampadine tenute da una sua mano si riflettevano, opportunamente curvate, tele di Caravaggio (Caravagg-io n. 1, 1980; Caravagg-io n. 2, 1982; Caravaggio n. 3, 1982-83), opere in cui va individuato il seme delle sue successive anamorfosi. Giuli e Takahashi indagavano doppi enantomorfici nell’ambito dell’astrazione geometrica.

Se il giapponese optava per un assoluto minimalismo nelle sue doublures di superfici monocrome, Giuli era molto più vario nelle sue policrome declinazioni costruttiviste dell’esprit de géométrie, giocate su schisi di morfologie specularmente contrapposte e realizzate sia pittoricamente che collagisticamente, talora su formato romboidale.

La Narciso arte è stato un significativo versante della produzione italiana degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. E per tale motivo, nel 1984, quando ero commissario al Padiglione Italiano della XLI Biennale, la proposi attraverso opere di Cossyro, Floriani e Rogolino. Ma purtroppo, come riferisco estesamente nel II tomo di Generazione anni Quaranta (pp. 907-910), Calvesi, che giunse a titolare la sua sezione Arte allo specchi, fece sì che i tre fossero esclusi.